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di Valentina Lisci

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LA LETTURA DEL
MITO DI APULEIO
SECONDO LE TAPPE
DELL’INIZIAZIONE FEMMINILE



Fin dai suoi esordi, l’opera di Apuleio conosciuta con il nome di “Le metamorfosi” o “L’asino d’oro” ha favorito il proliferare di molteplici chiavi di lettura che ne interpretano i significati sottili.

Proviamo a rileggere la famosa favola in esso contenuta, “Amore e Psiche”, seguendo le tappe del percorso iniziatico femminile, che spinge la protagonista a intraprendere un profondo processo di trasformazione personale, una μεταμρφωσις appunto, secondo il titolo dell’opera.

 
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C’era una volta una fanciulla bellissima. Si chiamava come i greci chiamano l’anima, Psiche.

Il vocabolario moderno preferisce volgarizzare questo termine traducendolo come “mente”, “sé”, “coscienza”. Invece nel nostro racconto si tratta di anima, di un’anima femminile votata a una grande avventura.

Sappiamo ben poco della prima parte di vita della giovane Psiche, possiamo immaginare un’esistenza tranquilla e monotona, senza intensi piaceri né forti dolori. Tutti osannano la sua bellezza, la omaggiano con doni reputandola una divinità, la inneggiano come nuova “Venere”. Lei non è felice di tanta bellezza e di tanti onori, perché tale fortuna inibisce ogni potenziale pretendente e le impedisce di maritarsi.
 
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Possiamo notare sin da ora come la bellezza diventi ostacolo a una condizione - il matrimonio - che per l’autore della novella sembra essenziale o quantomeno comune perché rientra nella norma, perché pratica sociale consolidata.

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Ma Psiche è votata a un destino ben diverso dal semplice matrimonio. Improvvisamente la routine della sua vita si spezza. Psiche era così bella da aver destato l’invidia di Venere che la destina a morte certa dandola in sposa a un crudele mostro. Un drago per la precisione, di quei draghi enormi e senza scrupoli, simbolo di una femminilità creatrice originaria che tanto è stata demonizzata dai tempi. Questo crudele destino dà avvio alla storia, quella vera, della giovane fanciulla.

Non sappiamo quando lo scempio inizia con precisione, proprio come nella vita reale accade un fatto che segna inesorabilmente i giorni a venire.


La grande Venere, regina indiscussa della bellezza, si indispettisce degli onori attribuiti a Psiche e decide di vendicarsi dando in pasto la sua mortale rivale a un crudele mostro.

Per fare questo chiede l’aiuto di suo figlio Eros, il dio alato dell’amore, che secondo i suoi piani dovrebbe far innamorare la fanciulla del mostro, consacrandola a nozze di morte.

Davanti a questo crudele fato, Psiche vive la prima vera quota di sofferenza necessaria a dare avvio al percorso di metamorfosi: deve incontrare la signora delle paure, la morte, che attende nelle fauci del burrone ciascun eroe che si rispetti.

 
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Tutti i suoi cari la accompagnano snodandosi lungo un corteo funebre che piange il destino della ragazza ma che in realtà la segue verso la prima tappa del percorso di iniziazione: l’incontro con la morte, intesa come fine di ciò che la fanciulla era sempre stata e aveva conosciuto fino a quel momento, l’incontro con la paura del nulla, del non senso, della mancanza di significati con cui generare un nuovo sé.

Davanti al burrone, Psiche immagina la fine, il vuoto, l’abisso, il mostro. E in un certo senso la fine (della vecchia vita di fanciulla), il vuoto (di significati con cui interpretare sia i nuovi avvenimenti che la sua nuova identità), l’abisso (la discesa verso aspetti di sé totalmente sconosciuti e inaccessibili fino a quel momento), il mostro (come drago-madre generatrice a cui far ritorno per rinascere a nuova vita) li incontrerà davvero.

La fanciulla si rassegna alla sua condizione, manda via i familiari e decide di andare incontro al tragico destino che non si è scelta, dettato invece dal capriccio (almeno così pare a una lettura superficiale) di una divinità.

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Prima prova superata. Né mostri, né morte, né vendetta, trova Psiche, ma solo un dolce vento, lo Zefiro, che la trascina a valle e la posa a terra dolcemente. Un vento che la trasporta in una condizione altra dell’esistenza, in un mondo a parte chiuso in sé stesso, che da quel momento in poi fungerà come preludio al percorso iniziatico vero e proprio.

Psiche entra in una dimora incantata, bellissima, la dimora di una divinità certo, dove solo alcune voci le fanno da compagnia servendola come una regina. È sola almeno fino alla sera, quando al buio fa la conoscenza del dolce compagno che la inizierà all’amore, Eros. Il Dio stesso dell’amore, di cui perfino Zeus aveva timore.

È interessante notare la presenza di “nomi parlanti” nel corso dell’intera novella: Psiche come anima, simbolo di tutte le anime cosmiche che si mettono in cammino, Eros come amore, come forza pulsante che tutto cambia e che tutto muove, come salvezza da un destino di morte. Zefiro come “apportatore di vita”, non a caso è il nome del vento che salva la ragazza dalla morte per mano del mostro e la porta nella casa di Eros.

 
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Psiche diventa la compagna di Eros in una notte e viene chiamata a rispettare un severo patto, quello di non provare mai a conoscere l’identità del suo sposo, nascosto nel buio fino a quel momento.

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Siamo davanti alla seconda prova. Alla ragazza viene offerta la possibilità di vivere un legame divino, dimorare in una casa stupenda, essere servita e riverita dalle voci che le fanno compagnia. A patto che mortifichi la sua curiosità, non osi sapere di più riguardo questo sposo che arriva di notte e la prende con sé.

La novella ci porta a riflettere su come certi elementi che in tutte le fiabe e nell’immaginario comune (una casa lussuosa, l’ozio, la bellezza, il piacere sessuale) sono oggetto di desiderio marcato, diventano ostacolo alla crescita personale.

La protagonista ha la possibilità di godere di una vita perfetta, ma non può conoscere l’identità del suo sposo, simbolicamente non può accedere alla conoscenza intima dell’Amore (come compagno e come sentimento) che rappresenterà la chiave dell’intero processo di cambiamento.

Psiche inizialmente accetta il patto, ma presto chiede al dolce compagno di poter ricevere la visita delle sorelle, di cui sente la mancanza. Eros non è convinto, sa che l’incontro con le sorelle metterà in pericolo la relazione “perfetta” che ha instaurato con la fanciulla. Cerca di prolungare all’inverosimile quel periodo magico che caratterizza l’inizio di ogni relazione amorosa.

Possiamo notare come l’Amore in questa fase della fiaba sia ancora un elemento ostacolante alla crescita, perché troppo legato al piacere sensuale e all’illusione di perfezione che rifugge qualsiasi mutamento. I protagonisti sono ben lontani da coglierne il significato profondo che metterà successivamente alla prova il loro sentimento. Eros non accetta la presenza di “estranei” che inficino la sua relazione con Psiche, per il dio alato esiste soltanto il suo oggetto di desiderio, nessun altro.
 
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Ma Psiche riesce a convincere il compagno a invitare le sue sorelle. Esse arrivano, si rallegrano della sua condizione, perché la credevano morta, ma, istigate dalla gelosia, la mettono in guardia dal suo sposo e dall’assurdo patto di non conoscerne l’identità.

Forse le sorelle sono mosse dall’invidia? O forse si demonizza l’intuito femminile che consiglia di “vederci chiaro” nelle vicende della vita, specialmente nelle relazioni amorose? Non sarebbe un fatto nuovo che nei miti, nelle fiabe, nei racconti pervenutici, la saggezza femminile venisse mortificata e traviata, concepita come causa di disgrazie e sciagure, come i capelli di Medusa che da simbolo di conoscenza antica diventano massa informe di orribili serpenti. Ma questa è un’altra storia. Fatto sta che ogni fiaba degna di questo nome ha bisogno dei suoi antagonisti e le sorelle riescono a insinuare il dubbio nella ragazza. Il reame in cui vive è reale? Il compagno misterioso potrebbe essere un terribile mostro?

Dopo aver ascoltato il parere delle sorelle, Psiche non si fida più di Amore. Non accetta più di vivere senza conoscere l’identità del compagno, di cui non sa neppure il nome.

Una notte, dopo che il suo sposo si addormenta sfinito dalle fatiche amorose, prende la lampada e gli illumina il volto.

Terza prova. Dopo aver affrontato la paura della morte e del nulla sul ciglio del burrone, ora la ragazza vuole conoscere le ragioni della nuova condizione in cui si trova. La curiosità femminile vince, il compromesso di una vita perfetta salta in tutta la sua insensatezza. Nel volto dell’amato che giace al suo fianco, la ragazza scopre i delicati tratti di Eros, il Dio alato.

 
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Io sono l’Amore che non osa dire il suo nome”, diceva Wilde.

Io sono Amore, quello con la A maiuscola che tu, o Psiche, hai ferito con la goccia di cera calda che straborda dalla candela. E volo via, perché non hai avuto fiducia in me, hai osato guardarmi in volto o comune mortale”, sembra dire Eros.

Psiche rimane sola.

Psiche, novella Pandora, con la sua curiosità ha rotto l’incanto.
Psiche ha avuto il coraggio di fronteggiare il suo destino e di metterlo in moto.

 
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La sua vita, senza curiosità, sarebbe rimasta legata al ruolo dapprima di figlia bellissima e poi di sposa bellissima. Invece Psiche sceglie di non fidarsi dell’esistenza che altri hanno decretato per lei e compie il primo passo del cammino vero e proprio di iniziazione all’antica saggezza femminile.

Si accorge di aver vissuto dentro una relazione amorosa invischiata e collusiva.

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Si accorge di aver perso il suo compagno e di averlo ferito e decide di riaverlo al suo fianco. Non come dono piovuto dal cielo in sostituzione a un mostro crudele, ma come sposo da conquistare, a cui offrirsi in tutta la sua pienezza di donna, in tutti i suoi pregi e in tutti i suoi difetti.

L’illusione iniziale svanisce. La dimora celestiale si dissolve, le voci che la servivano non ci sono più. Inizia il cammino irto di prove che la crudele Venere le pone davanti e che lei dovrà superare se vuole riconquistare il suo amato.

Psiche non sa cosa fare, vaga senza meta. L’intensa luce che proveniva da Amore non illumina più i suoi passi. Può sembrare inutile questo vagabondaggio... in realtà si può leggere nei termini del primo vero cammino che la ragazza compie di sua spontanea volontà, senza la costrizione di altri.

Incontra nel corso di questo vagabondaggio senza meta numerose divinità cui implora aiuto, ma che si rifiutano di aiutarla (e fanno bene, perché la ragazza deve smettere di affidare le redini della sua vita ad altre persone ed esserne invece padrona consapevole).

Così trascorre del tempo inconcludente fino a quando non si imbatte nella suocera, Venere, che la cerca in ogni capo del mondo per infliggerle una crudele vendetta.
 
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Psiche a questo punto sa di essere incinta. Porta in sé il germe di una nuova vita, simbolo della rinascita alla fine del cammino. Rinascita di sé, di un nuovo Io.

Venere non ha pietà di lei. La picchia selvaggiamente e la insulta, deride la sua fragile mortalità e la sua condizione di gestante. Le prospetta una serie di prove difficilissime, al limite dell’umano (ma del resto la vita di cui la fanciulla aveva goduto con Eros non era umana).

La Dea non ha pietà della nuora, non può avere pietà perché il premio alla fine del cammino di prove che le riserverà è troppo grande, è l’Amore stesso, il Dio per eccellenza che questo sentimento comanda.

Psiche non sa come superare le prove. Piange impotente e sogna la morte, non vuole scegliere, non vuole combattere.

Viene aiutata da una serie di creature appartenenti al mondo naturale che svolgono le prove per lei. Queste creature sembreno parti sconosciute del suo sé, che davanti all’urgenza della difficoltà si risvegliano e combattono: minuscole formiche che rappresentano la tenacia, la pazienza, la costanza, dividono i semi della sua vita, facendo finalmente un po’ d’ordine; la canna acquatica sottile che le consiglia di aspettare prima di cogliere la lana delle pericolose pecore; l’aquila forte e maestosa che si alza coraggiosa in volo per raccogliere l’acqua mortale dello Stige.

Tutte queste presenze interne nell’anima della ragazza sono doti nascoste, risorse mai svelate, che nel momento della necessità fanno il loro ingresso in scena. Lottano contro il tempo, contro le circostanze, contro i limiti fisici. Le tre prove del percorso iniziatico vengono superate.
 
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Venere è sconcertata dall’evidenza dei successi e sottopone la ragazza ad un ultima prova. La più terribile.

Scendere nell’Inferno per chiedere un po’ della bellezza di Proserpina.

La stessa discesa nel mondo degli inferi che Psiche avrebbe dovuto compiere fin dall’inizio della storia, quando i suoi familiari l’accompagnavano a “morire”, una prova da cui era stata temporaneamente esonerata dall’intervento di Eros che la voleva con sé e aveva comandato a Zefiro di portarla nella sua dimora.

Si trattava solo della posticipazione di una tappa che prima o poi doveva essere affrontata: per crescere, per maturare, per entrare dalla “luna della giovinezza” alla “luna della maturità”.

Per partorire un nuovo sé.

In questo risiede il grande miracolo femminile: la capacità di rinnovarsi sempre, come la fenice che continuamente rinasce dalle sue ceneri, sconfiggendo la morte.

Psiche sa che la sua discesa nel mondo infero era stata solo rinviata, e che è arrivato il momento di compierla. Forse sa anche che tanto pronta per vivere con Amore all’oscurità di se stessa, in fondo non lo era...

Scende nell’Ade, supera le prove che qui l’attendono, sfama il cane bestiale, ignora le richieste di aiuto delle anime e torna vittoriosa con un po’ di bellezza della divina Proserpina racchiusa in uno scrigno. La bellezza racchiusa in una scatola, la bellezza di una Dea della vegetazione che fiorisce solo in primavera, quando torna sulla terra. Un inganno tramato da Venere di cui la fanciulla non si rende conto: ormai ce l’ha fatta. Ormai la vittoria è sua. Eros, il premio di tante fatiche e tanto dolore, si fa sempre più vicino.

Il cammino è percorso, l’iniziazione sembra avvenuta.

Forse Psiche può abbassare la guardia. Forse può usufruire di un pochino di quella bellezza che tiene in mano, forse potrebbe dare un’occhiata a quello scrigno tanto prezioso per cui Venere l’ha costretta a un viaggio così pericoloso.

 
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Apre il cofanetto e il nulla si impossessa di lei. Psiche cade in un sonno profondo come la morte; la morte vera che non dà libertà di scelta, che annulla le fatiche e le speranze.

Se la curiosità che aveva portato la ragazza a rompere l’incantesimo della sua vita, prima nella casa paterna poi nella dimora incantata di Eros, aveva rappresentato la scintilla di avvio del percorso di crescita, adesso la curiosità alla fine del suo viaggio la condanna per sempre.

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Ma la fine della storia la conosciamo tutti: Amore, il dolce caro premuroso Amore, pur dolorante per la ferita, raggiunge la sua amata e la riconsegna alla vita.

Il percorso non è stato dunque vano! La Psiche che viene risvegliata da Eros non è la stessa fanciulla di prima: è una donna sapiente, che ha superato le prove che la sacra femminilità le ha messo davanti, ha avuto finalmente il coraggio di affrontare la morte del suo vecchio, immaturo “Io”.

A questo punto Psiche incinta concepisce una nuova sé stessa, che chiama “Voluttà”, figlia di un intenso godimento fisico e spirituale avuto con il compagno Eros.
 
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A conclusione della novella, si celebra il matrimonio tra i due al cospetto di tutti gli Dei e la nostra eroina riceve il supremo dono dell’immortalità.

Perché l’amore terreno finisce ma l’Anima, quella sì, che non muore mai.

 


Immagini (prevalentemente opere di Antonio Canova) tratte da siti web

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L'AUTRICE

Valentina Lisci ha 25 anni e vive a Sanluri. Frequenta l’Università di Cagliari dove sta completando i suoi studi in psicologia. Nel tempo libero scrive e ama viaggiare alla scoperta della sua meravigliosa Isola, di cui è innamorata. Si dedica in particolar modo ai grandi temi del sacro femminile e del paganesimo moderno.

valentina.lisci@email.it





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AMORE E PSICHE
da L'Asino d'oro
di Apuleio

LIBRO QUARTO
La bellezza di Psiche
XXIX

"Un tempo, in una città, vivevano un re e una regina che avevano tre bellissime figlie, le due più grandi, per quanto molto belle, potevano essere degnamente celebrate con lodi umane, ma la bellezza della più giovane era così straordinaria e così incomparabile che qualsiasi parola umana si rivelava insufficiente a descriverla e tanto meno a esaltarla. "Insomma sia quelli della città che i forestieri, attratti in gran numero dalla fama di tanto prodigio, restavano attoniti dinanzi a un simile miracolo di bellezza: portavano la mano destra alle labbra, accostavano l’indice al pollice e la adoravano con religioso rispetto come se fosse stata Venere in persona. "Anzi nelle vicine città e nelle terre confinanti si era sparsa la voce che la dea nata dai profondi abissi del mare e allevata dalla spuma dei flutti, volendo elargire la grazia della sua divina presenza, era discesa fra gli uomini o anche che da un nuovo seme di stille celesti non il mare ma la terra aveva sbocciato un’altra Venere, anch’essa bellissima, nella sua grazia virginale.

L'invidia della dea Venere e il ricorso a Cupìdo.
XXX

"’Ecco che io, l’antica madre della natura, l’origine prima degli elementi, la Venere che dà vita all’intero universo, sono ridotta a dividere con una fanciulla mortale gli onori dovuti alla mia maestà e a veder profanato dalle miserie terrene il mio nome celebrato nei cieli. Nessuna meraviglia, allora, se durante i riti espiatori dovrò sopportare un culto equivoco, diviso a metà e se una fanciulla che non potrà sfuggire alla morte ostenterà le mie sembianze. ‘A nulla è valso allora che quel pastore la cui giustizia e lealtà fu dallo stesso Giove riconosciuta, per la straordinaria bellezza prescelse me fra dee tanto più illustri. ‘Ma non se li godrà a lungo costei, chiunque sia, gli onori che mi usurpa: la farò pentire io della sua bellezza che non le spetta.’ ‘E là per là chiamò il suo alato figliuolo, quel cattivo soggetto che, infischiandosene della pubblica morale, ha la pessima abitudine di andarsene in giro armato di torce e di frecce, di entrare di notte nelle case della gente e profanare i letti nuziali insomma di provocare impunemente un sacco di guai, senza far mai nulla di buono. E sebbene fosse un briccone e sfacciato per natura, lei questa volta con le sue parole lo incoraggiò e lo aizzò, lo condusse fino a quella città, gli indicò Psiche - così si chiamava la fanciulla - e gli raccontò gemendo e fremendo d’indignazione tutta la storia della bellezza contesa.

La bellezza di Venere.
XXXI

"Così gli parlò stringendosi forte al seno quel suo figliuolo e baciandoselo a lungo. Poi si diresse alla spiaggia vicina, là dove batte l’onda, e sfiorando con i rosei piedi le creste spumose dei fervidi flutti, ristette alfine sulla calma superficie del mare; e il mare le rese omaggio, a un suo cenno, com’ella desiderava, come se tutto da tempo fosse già stato voluto: le danzarono intorno le figlie di Nereo cantando in coro, e Portuno con l’ispida barba azzurra e Solacia col grembo colmo di pesci e il piccolo Palemone che cavalcava un delfino. Qua e là fra le onde esultavano a schiera i Tritoni, l'uno soffiava dolcemente nella conchiglia sonora, un altro con un velo di seta faceva schermo all’ardore molesto del sole, un terzo sosteneva uno specchio dinanzi agli occhi della dea, gli altri nuotavano a coppie aggiogati al suo cocchio. "Un tal seguito scortava il viaggio di Venere verso l’oceano.

La solitudine di Psiche e il vaticinio dell'oracolo.
XXXII

"Ma intanto Psiche, bellissima com’era, non ricavava alcun frutto dalla sua grazia. Tutti la ammiravano, la lodavano, e pure non un re, non un principe, nemmeno un plebeo veniva a chiederla in sposa. Restavano lì a contemplare quelle divine sembianze come si ammira una statua di suprema fattura. "Un giorno le due sorelle più grandi, la cui bellezza, modesta, era passata inosservata al gran pubblico, si fidanzarono con principi del sangue e celebrarono nozze felici mentre Psiche, rimasta vergine, sola nella vuota casa, piangeva il suo triste abbandono e sofferente e intristita finì per odiare la sua stessa bellezza che pure tutti ammiravano. "E così l’infelice padre della sventurata fanciulla, temendo una maledizione celeste e la collera degli dei, interrogò l’antichissimo oracolo del dio Milesio e con preghiere e con vittime chiese a questa potente divinità per la vergine negletta nozze e marito. E Apollo, benché greco e ionico, per compiacere l’autore di questo romanzo, gli rispose in latino così:

XXXIII

'Come a nozze di morte vesti la tua fanciulla ed esponila o re su un’alta cima brulla non aspettarti un genero da umana stirpe nato ma un feroce, terribile, malvagio drago alato che volando per l’aria ogni cosa funesta e col ferro e col fuoco ogni essere molesta. Giove stesso lo teme, treman gli dei di lui, orrore ne hanno i fiumi d’Averno e i regni bui.' Il re che un tempo era stato felice, sentito il sacro responso, fece ritorno a casa coll’animo colmo di tristezza e riferì alla moglie i comandi del funesto oracolo. Per più giorni non fecero che piangere, gemere, lamentarsi.

L'esecuzione della divina sentenza.

XXXIII

Ma ormai era giunto il tempo di adempiere a quanto aveva prescritto il crudele vaticinio e per la sventurata fanciulla venne l’ora di prepararsi a quelle funebri nozze. Già il lume delle fiaccole si oscurava di nera fuliggine spegnendosi sotto la cenere, il suono del flauto nuziale si mutava in una triste nenia lidia, il canto lieto dell’imeneo in un lamento lugubre e la sposa novella si asciugava le lacrime con il velo nuziale. Tutta la città si dolse del triste destino che aveva colpito quella casa e in segno di generale cordoglio fu decisa la sospensione di ogni pubblica attività.

XXXIV

"Ormai alla povera Psiche non restava che obbedire al volere celeste e sottomettersi al supplizio cui era stata destinata. "Terminati nella più profonda tristezza tutti i solenni preparativi di quel funesto matrimonio una gran folla di popolo seguì le esequie di un vivo e Psiche in lacrime fu accompagnata non a nozze ma al suo funerale. "I poveri genitori colpiti da una sventura così grande, esitavano a compiere un così orribile crimine ma era la stessa figliola ad esortarli: ‘Perché’ diceva ‘volete angustiare ancor più la vostra infelice vecchiaia? Perché affannate il vostro cuore, che è anche il mio, in continui lamenti? Perché sciupate con lacrime inutili quei vostri visi adorati? Straziando i vostri occhi è come se straziaste i miei. E perché vi strappate i capelli, perché vi battete il petto, e tu, madre, perché colpisci quel santo seno che mi nutrì? Ecco per voi il premio della mia famosa, straordinaria bellezza. L’invidia funesta ha inferto il colpo mortale e voi tardi lo avete capito. Quando folle intere, intere città mi tributavano onori divini e tutti, a una voce, mi proclamavano la nuova Venere, oh, allora avreste dovuto dolervi e piangere e indossare il lutto come se fossi già morta. Ne sono sicura, lo sento, la mia rovina è stata soltanto per quel nome di Venere. "Conducetemi dunque in cima alla rupe che la sorte mi ha destinata e lasciatemi lì. Desidero ormai celebrare presto queste nozze felici, voglio vederlo subito questo mio nobile sposo. Perché indugiare, perché differire l’incontro con costui che è nato per la rovina dell’intero universo?’

XXXV

"Così disse la vergine e poi tacque e con passo deciso s’avviò tra la folla che la seguì in corteo. "Giunsero così alla rupe destinata, su in alto, in cima a un monte a strapiombo, e lì lasciarono la fanciulla, sola, lì lasciarono le fiaccole, spente con le loro lacrime, con cui s’eran fatti lume e a capo chino rientrarono alle loro case. "I poveri genitori, distrutti da tanta sciagura, si chiusero nell’ombra più fitta delle loro stanze votandosi a una notte senza fine. "Psiche intanto, spaurita e tremante, là in cima alla rupe, si struggeva in lacrime, quand’ecco l’alito mite di Zefiro che mollemente spirava e in un vortice lieve le ventilava le vesti, dolcemente la sollevò da terra e sostenendola col suo soffio leggero, giù giù lungo il pendio del monte, la depose nel cavo di una valle in grembo all’erbe e ai fiori.


LIBRO QUINTO

Il palazzo incantato.
I

"Psiche dolcemente adagiata su un morbido prato, in un letto di rugiadosa erbetta sentì l’animo suo liberarsi di tutta l’angoscia e placidamente s’addormentò. "Dopo aver riposato abbastanza si levò più tranquilla e vide un boschetto fitto di alberi alti e frondosi e una sorgente d’acque cristalline e, proprio in mezzo al bosco, non lontana da quella fonte, vide una reggia, costruita non dalla mano dell’uomo ma per arte divina. Fin dalla soglia ci si accorgeva subito che si trattava della dimora splendida, fastosa di un dio. "Il soffitto a cassettoni finemente intarsiati di cedro e d’avorio, era sostenuto da colonne d’oro, le pareti tutte rivestite da bassorilievi d’argento raffiguranti belve e altri animali nell’atto di balzare su chi entrava. "Un uomo certamente straordinario, un semidio forse, anzi un dio di sicuro, chi aveva, con un’arte così magistrale, animato tutto quell’argento. Anche i pavimenti di preziosi mosaici spiccavano per la varietà delle composizioni. "Beati, oh, sì, veramente beati quelli che avrebbero potuto camminare su quelle gemme e su quei gioielli. "D’altronde, anche il resto della casa, in lungo e in largo. era di valore inestimabile: i muri erano formati da blocchi d’oro e brillavano di luce propria, così che quel palazzo risplendeva di per sé anche senza la luce del sole, tanto sfolgoravano le stanze, i porticati, le stesse porte. "Tutte le altre cose erano perfettamente intonate alla magnificenza regale di quella casa sì che veramente sembrava che quel divino palazzo fosse stato costruito per il sommo Giove come sua dimora terrena.
Le voci misteriose.

II

"Attratta dall’incanto del luogo Psiche s’avanzò, poi fattasi coraggio varcò la soglia e, presa dalla curiosità di quella mirabile visione, si mise a osservare attentamente ogni cosa. Vide così, in un’altra ala del palazzo, loggiati dalla linea stupenda, pieni zeppi di tesori: c’era tutto quanto si potesse desiderare e immaginare. "Ma la cosa più straordinaria, più ancora di tutte quelle meraviglie, era che nessuna chiave, nessun cancello, nessun custode difendeva quelle ricchezze. "Mentre con sommo piacere ella contemplava tutto questo, sentì una voce misteriosa che le disse: ‘Signora, perché stupisci di fronte a tanta ricchezza? Ciò che vedi è tuo. Entra in camera e lasciati andare sul letto e comanda per il bagno, come ti piace Queste voci sono quelle delle tue ancelle, pronte a servirti, e quando avrai terminato di prenderti cura della tua persona, non dovrai attendere per un pranzo regale.’

III

"Psiche comprese che tutta quella grazia era un segno della divina provvidenza e seguendo le indicazioni delle voci misteriose prima con il sonno poi con un bagno si liberò della stanchezza. "Fu allora che vide, poco discosta, una tavola semicircolare già apparecchiata per il pranzo e pensando si trattasse del suo, volentieri sedette. "All’istante, senza che nessuno servisse, ma come spinti da un soffio, le vennero recati vini pregiati, svariate pietanze. Non riusciva a vedere nessuno, sentiva solo un rimbalzar di parole é aveva per ancelle soltanto delle voci. "Dopo quel pranzo squisito un essere invisibile entrò e cominciò a cantare e un altro ad accompagnarlo sulla cetra ma Psiche non riuscì a vedere nemmeno questa; poi le giunse all’orecchio un concerto di voci: si trattava di un coro, ma anche questa volta la fanciulla non vide nessuno.
L'amante invisibile.

IV

"Quando queste delizie cessarono, l’ora tarda invitò al sonno Psiche. "Ma nel cuor della notte un rumore leggero le giunse all’orecchio, Ella era sola col suo pudore di vergine e trasalì, cominciò a tremare di paura, a temere l’ignoto che la circondava più che un pericolo reale. Ma era il suo sposo invisibile che veniva a lei che entrava nel suo letto e la possedeva, e che prima dell’alba s’era già dileguato. "Accorsero allora prontamente le voci che vigilavano nella stanza e porsero alla novella sposa le loro cure per la violata verginità. "Questo si ripeté per molto tempo e come di solito accade l’abitudine finì col rendere piacevole a Psiche questa sua nuova esistenza e il suono di quelle voci misteriose col consolare la sua solitudine. "Nel frattempo i suoi genitori invecchiavano in un dolore e in un lutto inconsolabili. La fama di quanto era accaduto s’era sparsa in lungo e in largo e anche le sorelle maggiori erano venute a sapere ogni cosa. "Tristi e angosciate, esse avevano lasciate le loro case e in fretta e furia erano corse a consolare i loro genitori.
Psiche è messa in guardia dal suo sposo.

V

"Quella notte stessa lo sposo disse alla sua Psiche; - infatti, benché invisibile lei poteva udirlo è toccarlo come un marito in carne e ossa - ‘psiche, mia dolcissima e amata sposa, il destino crudele ti minaccia di un terribile pericolo, per cui ti prego dì essere molto prudente. Le tue sorelle, angosciate dalla notizia della tua morte si sono messe sulle tue tracce e presto verranno a questa rupe; se tu sentissi i loro lamenti, per carità non rispondere, non farti vedere, perché a me daresti un grande dolore ma per te sarebbe addirittura la fine.’ "Assentì Psiche e promise che avrebbe fatto come il suo sposo diceva ma quando egli con la notte si dileguò, per tutto il giorno la poverina non fece che struggersi in lacrime: ‘Allora son proprio morta’ si ripeteva tra i lamenti ‘prigioniera in questo carcere d’oro, senza poter corrispondere con esseri umani, senza nemmeno poter consolare le mie sorelle che mi piangono morta, senza neppure poterle vedere.’ E quel giorno non fece il bagno, non toccò cibo, non si concesse alcun ristoro. A sera il sonno la vinse che ancora piangeva disperata.
Psiche ottiene di rivedere le sorelle.

VI

"Così quando il suo sposo, più presto del solito, le si distese al fianco e stringendola fra le braccia sentì che piangeva: ‘Sono queste’ le disse ‘le tue promesse, Psiche? Che cosa può aspettarsi da te, che cosa può sperare un marito? Non fai altro che piangere giorno e notte e non smetti di tormentarti neanche quando sei fra le mie braccia. Fa pure quello che vuoi, va pure dietro al tuo cuore e tienti il danno, ma quando comincerai a pentirtene, e sarà tardi, ricordati che io ti avevo seriamente avvertito.’ "Ma ella con mille preghiere, minacciando perfino che si sarebbe data la morte, strappò al suo sposo il permesso di vedere le sorelle, di consolare il loro dolore, di trattenersi un poco a parlare con loro. Ed egli cedette all’insistenza della giovane sposa e le concesse perfino che donasse alle sorelle tutto l’oro e i gioielli che credeva ma, nello stesso tempo, l’avvertì se veramente e con parole ché le fecero paura, di non indagare, magari seguendo i cattivi suggerimenti delle sorelle, sull’aspetto di lui, di non cedere a una simile sacrilega curiosità, perché allora, da tanta beatitudine sarebbe precipitata nella rovina più nera e non avrebbe più goduto dei suoi amplessi. "Ella ringraziò lo sposo e tutta contenta lo rassicurò che avrebbe preferito cento volte morire piuttosto che non fare più all’amore con lui, che lo amava ardentemente, chiunque fosse, che le era caro come la vita e che lo preferiva perfino allo stesso Cupido: ‘Ma ti prego’ gli diceva tra i baci ‘concedimi ancora questo: comanda al tuo servo Zefiro di portar qui le mie sorelle al modo stesso che lo fui io’ e gli sussurrò mille dolci paroline e si avvinghiò al suo corpo quasi a costringerlo, continuandogli a ripetere fra le carezze: ‘Gioia mia, sposo mio diletto, dolce anima della tua Psiche.’ "Suo malgrado lo sposo cedette alla forza e alla seduzione di quei sussurri d’amore e promise che avrebbe fatto quello che lei voleva; poi, appressandosi l’alba, si sciolse dagli amplessi della sposa a svanì.
La visita delle sorelle.

VII

"Frattanto le sorelle, saputo il posto in cima alla montagna dov’era stata abbandonata Psiche lo raggiunsero senza indugio e qui cominciarono a piangere e a battersi il petto, tanto che rocce e dirupi echeggiarono presto dei loro gemiti. "Poi si misero a chiamare per nome la povera sorella finché Psiche, a quei dolorosi lamenti che si spandevano tutt’intorno giù giù fino a valle, trepidante e fuori di sé si precipitò dal palazzo esclamando: "’Perché vi disperate? Voi mi piangete ed io sono qui. Smettetela con i lamenti. Asciugate le vostre guance troppo a lungo bagnate di lacrime perché ormai potete abbracciare quella che piangevate morta. Poi chiamò Zefiro, gli riferì il volere dello sposo e quello, subito, ubbidiente al comando, lieve lieve con i suoi dolci soffi le trasportò giù sane e salve. "Baci e abbracci a non finire si scambiarono le tre sorelle e le lacrime a stento poco prima represse tornarono a spuntare ma questa volta furono lacrime di gioia. "’Suvvia, entrate è rallegratevi, è questa la mia casa, bando alle malinconie, ora che siete con la vostra Psiche.’

VIII

"E così dicendo mostrò alle sorelle tutti i tesori di quel palazzo dorato e fece sentire anche a loro le innumerevoli voci che la servivano. "Poi le ristorò con un magnifico bagno e con un pranzo che fu tutto una delizia, degno degli dei, tanto che dopo essersi rimpinzate di ogni ben di dio le due sorelle cominciarono a covare in cuor loro un senso di invidia. "A un certo punto una delle due cominciò a far la curiosa e a chiedere con insistenza chi fosse il padrone di tutte quelle meraviglie, chi era suo marito e che aspetto avesse. "Ma Psiche a nessun costo avrebbe tradito il giuramento fatto allo sposo e, infatti, non svelò i suoi segreti. Là per là inventò che era un bel giovane con il volto appena ombreggiato dalla prima barba, sempre via a caccia per boschi e per monti, e, anzi, per evitare che, continuando nel discorso ella potesse tradirsi e dire cose che non doveva, chiamò Zefiro e dopo averle caricate di gioielli, di gemme, di pietre preziose, le affidò a lui, perché gliele portasse via. Il che fu subito eseguito.
Le sorelle di Psiche tramano il loro piano.

IX

"Ma quello che non si dissero, rientrando a casa, le due rispettabili sorelle, divorate com’erano dall’invidia e dalla bile! "Una, alla fine, garrì: ‘Fortuna orba, crudele e malvagia. Bel gusto il tuo a farci nascere dagli stessi genitori e poi darci una sorte così diversa. Noi che siamo le più grandi, facciamo le serve a dei mariti stranieri e siamo costrette a vivere come delle esiliate, lontano dalla nostra casa, dalla nostra patria, dai nostri genitori; quella li invece, la più giovane l’ultimo parto di un ventre ormai esausto, ha ricchezze a non finire e un dio per marito e di tutta questa fortuna non sa nemmeno farne buon uso. Ma hai visto, sorella, quanti e quali tesori in quella casa e che splendide vesti e che luccichio di gioielli? Sembra di camminare addirittura sull’oro, se poi ha anche un bel marito, come lei dice, è proprio la donna più fortunata del mondo. E non è detto poi che vivendo insieme e crescendo l’affetto, il marito, che è un dio, non finisca per far diventare dea anche lei. Sta a vedere, perdio, che sarà proprio così: quel suo modo di fare, quel suo comportamento, quella già si vede sul piedistallo, ha per schiave delle voci, dà ordini ai venti, mi sa che nella donna c’è già la dea. "Guarda me, invece, disgraziata che sono: m’è capitato un marito più vecchio di mio padre, per giunta più calvo di una zucca, più timido d’un ragazzino e che tiene tutta la casa sotto chiave e catena.

X

"’Ed io,’ fece di rimando l’altra ‘che mi devo sopportare un marito tutto rattrappito e sciancato dai reumatismi e che in fatto d’amore, quindi, mi fa fare lunghe astinenze. Devo sempre fargli le frizioni alle dita, contorte e indurite come pietre, irritarmi queste mie mani così delicate tra medicine puzzolenti, luride ben de e schifosi cataplasmi; altro che la moglie premurosa, l’infermiera mi son ridotta a fare. Tu, sorella, lasciatelo dire francamente, mi sembra che sopporti tutto questo con troppa pazienza, se non addirittura con la rassegnazione di una serva; io invece non so rassegnarmi all’idea che una fortuna di quel genere sia dovuta capitare a una che non ne è degna. "Prova a ricordarti con quanta superbia e arroganza ci ha trattate e come si vantava davanti a noi e come si compiaceva dentro di sé. "In fondo in fondo, poi, che cosa ci ha dato? Poche scarabattole, se si pensa a tutti i tesori che possiede, e a malincuore per giunta; poi su due piedi si è liberata della nostra presenza e a soffi e a fischi ci ha fatto portar via. Ma quant’è vero che sono una donna e che sono viva, io quella la tirerò giù da tutta la sua fortuna. "Perciò se anche tu, come dovresti, ti senti bruciare da quest’affronto, vediamo in due di tirar fuori qualche progettino efficace. "Per prima cosa silenzio con tutti, genitori compresi, per quanto riguarda i doni che ci siamo portati via; anzi dobbiamo dire di non aver saputo nulla di lei se sia ancora viva o meno.: già troppo quello che abbiamo visto noi e che non avremmo voluto vedere, che non è proprio il caso di andare a rivelare ai quattro venti o anche soltanto ai nostri genitori le sue fortune. "Per fare, infatti, meno felice qualcuno è sufficiente che nessuno conosca la sua fortuna. "Ora però torniamo dai nostri mariti, alle nostre case, povere quanto vuoi ma ospitali. Ci penseremo su con tutta calma e ponderazione e ritorneremo più risolute e decise a punire tanta superbia.’

XI

"Questa malvagia risoluzione parve buona alle perfide sorelle che, nascosti tutti quei doni così preziosi, cominciarono a strapparsi le chiome, a graffiarsi il viso (se lo sarebbero meritato) e a versare false lacrime. "Poi, gonfie di rabbia, dopo aver rinnovato il dolore nei loro genitori sbigottiti, di furia, fecero ritorno alle loro case per macchinare un inganno scellerato, anzi un vero e proprio delitto nei riguardi della sorella innocente.
Nuovi avvertimenti a Psiche.

"Intanto il misterioso sposo ripeteva a Psiche i soliti avvertimenti nei suoi colloqui notturni: Ma non vedi quale pericolo ti sovrasta? La sventura, per ora, ti minaccia da lontano ma se tu non prendi tutte le precauzioni essa presto ti piomberà addosso Quelle perfide bagasce stanno architettando contro di te una trappola infame, come quella di persuaderti innanzitutto a scoprire il mio aspetto e tu sai, invece, perché te l’ho ripetuto più volte, che se mi vedi poi non potrai più vedermi. Quindi se quelle perfide streghe torneranno da te con cattive intenzioni, e senz’altro torneranno, lo so, non parlare con loro e se questo per il tuo carattere semplice e i1 tuo buon cuore proprio non ti sarà possibile, almeno non ascoltare e non dire una parola che riguardi tuo marito. "’Presto non saremo più in due perché questo tuo grembo, fino a ieri ancora di bambina, porta già in sé, per noi, una creatura: un dio se tu saprai custodire il nostro segreto, un essere mortale se, invece, lo violerai.’

XII

"A quella notizia Psiche s’illuminò di gioia; il consolante pensiero di una prole divina la rallegrava, era orgogliosa del futuro rampollo ed esultava della sua nuova dignità di madre. "Ansiosa contava i giorni che si succedevano, i mesi che passavano e nella sua innocenza si stupiva di quello strano peso e di quel ventre che, per una piccola trafittura, le era tanto cresciuto. "Ma intanto quei flagelli, quelle orribili Furie, gonfie di veleno come vipere, avevano rotto gli indugi e, preso il mare, rapide si appressavano spinte dalla loro stessa malvagità. "E allora quello sposo sempre fuggente, ancora una volta ammonì la sua Psiche: "È venuto il giorno supremo, il momento decisivo: un nemico del tuo sesso, del tuo stesso sangue, ha preso le armi, ha levato il campo, muove contro di te, dando fiato alle trombe. Sono le tue sciagurate sorelle che hanno impugnato la spada e cercano la tua gola. Ohimè, mia dolce Psiche quali grandi sventure ci sovrastano."Abbi pietà di te, di noi e con il tuo scrupoloso silenzio salva dall’imminente rovina la casa, lo sposo, te stessa, questo nostro piccino. Evita di vederle, di ascoltarle quelle femmine scellerate, che non puoi più chiamare sorelle dopo che ti hanno dichiarato odio mortale e hanno calpestato i vincoli del sangue, quando compariranno su quella rupe e come sirene faranno echeggiare le rocce dei loro funesti richiami.’

XIII

"Ma Psiche con parole soffocate dai singhiozzi: ‘Da tempo, credo, hai avuto le prove della mia fedeltà e della mia discrezione; tuttavia voglio nuovamente di mostrarti la fermezza del mio animo. Soltanto devi ancora una volta dire al nostro Zefiro che obbedisca ai miei ordini e, in cambio del tuo aspetto divino che mi nascondi, lasciare almeno che io riveda le mie sorelle. Suvvia, ti prego, per questi tuoi capelli profumati e fluenti, per queste tue guance morbide e lisce come le mie, per questo tuo petto che spande non so quale ardore, oh possa un giorno riconoscere almeno nel bimbo il tuo aspetto; ti supplico con le preghiere più ardenti, più umili, lascia ch’io riabbracci le mie sorelle, fa contenta la tua Psiche che ti è fedele e ti ama. Il tuo volto io non lo voglio più conoscere, la notte per me non ha più ombre: ho te e tu sei la mia luce.’ "Stregato da queste parole e dalle carezze lascive lo sposo, asciugandole le lacrime con i capelli, promise che l’avrebbe esaudita, poi rapido si dileguò prima che sorgesse il nuovo giorno.
Psiche è ingannata e vinta dalle sorelle.

XIV

"Le due sorelle, unite nella congiura, senza neppure far visita ai genitori, lasciata la nave, si diressero di filato verso la rupe e non aspettarono nemmeno che il vento si sollevasse a raccoglierle ma con folle temerarietà si precipitarono giù dall’alto. "Ma Zefiro che ricordava l’ordine del suo signore, sebbene malvolentieri, le raccolse nel grembo del suo soffio e le depose al suolo. Ed esse senza indugiare, a passi veloci, entrarono nella casa di Psiche, abbracciarono la loro vittima, sorelle soltanto di nome, la blandirono, nascondendo dietro il sorriso tutta la perfidia che covavano in cuore. "Psiche, ma tu non sei più la bimba di prima, eccoti già madre. Pensa chissà quale tesoro tu ci porti in questo tuo piccolo grembo. Che gioia darai a tutta la nostra famiglia. Come saremo felici di allevare questo bimbo d’oro. Se poi, com’è naturale, somiglierà in bellezza a sua madre e a suo padre, oh, allora, vedremo nascere proprio un nuovo Cupido.’

XV

"Così simulando affetto, a poco a poco si cattivarono l’animo della sorella la quale premurosamente le fece sedere perché si riposassero del viaggio, le ristorò con un bel bagno caldo, le intrattenne nel triclinio lasciando che si servissero loro piacere di quelle sue pietanze squisite e raffinate. Ordinò poi che la cetra suonasse e subito s’udì un arpeggio, comandò che i flauti suonassero e così fu, che si cantasse in coro e un coro cantò: non si vedeva nessuno ma queste soavi melodie accarezzavano l’animo di chi le ascoltava. "Eppure la malvagità di quelle femmine scellerate non si quietò nemmeno alla dolcezza di quel canto, anzi avviando il discorso in direzione della trappola già predisposta, facendo finta di nulla, cominciarono a chiedere a Psiche com’era quel suo marito, dov’era nato e da quale famiglia discendesse. "E quella, ingenua com’era e non ricordando ciò che aveva detto la volta prima, inventò una nuova storia, cioè che il suo sposo era nativo della vicina provincia, che aveva un grosso giro di affari, che era di mezza età e già con qualche capello bianco. "Poi, senza indugiare troppo su questo discorso le colmò nuovamente di ricchi doni e le affidò al vento perché le riportasse via.

XVI

"Ma quelle mentre tornavano a casa sollevate dal soffio tranquillo di Zefiro, così cominciarono a discutere: ‘Che ne pensi sorella, della grossolana menzogna di quella stupida? L’altra volta era un giovanotto che aveva sì e no la barba, ora è diventato un uomo maturo con i capelli già brizzolati. Ma chi può essere uno che in così poco tempo diventa vecchio? Sorella mia, c’è poco da capire: o quella svergognata ci racconta un sacco di bugie o non sa nemmeno come è fatto suo marito. "Comunque, nell’un caso o nell’altro, l’importante è tirarla giù da tutte le sue ricchezze. Perché se non conosce l’aspetto del marito vuol dire che ha sposato un dio e, dato che è incinta, un dio sarà anche il bambino. "Sta certa che se quella lì, non sia mai, passerà per la madre di un fanciullo divino, io mi appenderò a una corda, e subito. "Ma per adesso torniamo dai nostri genitori e prendendo lo spunto da questo discorso, continuiamo a tessere inganni, quanto più verosimili.’

XVII

"Così, divorate dall’ira, rivolsero appena un saluto sgarbato ai genitori e, dopo una notte insonne, al mattino, tornarono di furia alla rupe e di li si calarono giù con l’aiuto del solito vento. "Strofinandosi le palpebre riuscirono a strizzare qualche lacrima e poi si rivolsero alla fanciulla con queste astute parole: Beata te che te ne stai tranquilla, ignara di un fatto terribile, incurante del pericolo che ti sovrasta, ma noi che stiamo sveglie la notte, preoccupate del tuo caso, siamo angosciate al pensiero delle. tue sciagure. Abbiamo saputo, infatti, con tutta certezza, e non possiamo nascondertelo dato che abbiamo fatto nostre le tue sventure e il tuo dolore, che chi viene a let

to con te, di nascosto la notte, è un serpente gigantesco, tutto viscide spire dal collo gonfio d’un sangue velenoso e mortale e dalle fauci enormi spalancate. "Ora, ricordati dell’oracolo che ti predisse che avresti sposato un’orribile bestia. Molti contadini, e quelli che vengono a caccia da queste parti, e parecchi abitanti dei dintorni lo hanno visto all’imbrunire tornare dalla pastura e nuotare nelle acque del fiume qui vicino.

XVIII

"E tutti dicono che non ti colmerà per molto tempo di tutte queste delizie ma che appena la tua gravidanza si sarà compiuta ti divorerà insieme con il ricco frutto del tuo ventre. "Stando così le cose tu devi decidere: o ascoltare le tue sorelle così sollecite della tua vita e, scampando alla morte, vivere con noi fuori di ogni pericolo, oppure finire nelle viscere di un mostro orrendo. "Se poi ti piace questa solitudine risonante di voci, se ti piace giacere con un fetido, furtivo e pericoloso amante, accoppiarti con un velenoso serpente, noi le tue buone sorelle, avremo almeno fatto il nostro dovere.’ "La povera Psiche, ingenua e di cuor semplice com’era, a quelle parole così terribili fu assalita dal terrore. Come fuori di sé dimenticò gli avvertimenti dello sposo, tutte le promesse fatte e precipitò se stessa nella rovina più nera. "Tremante, sbiancata in volto livida, con un filo di voce, balbettò parole rotte.

XIX

"’Sorelle carissime, a fare quel che fate vi spinge il vostro affetto verso di me ed è anche giusto che sia così, ma anche quelli che vi han detto queste cose orribili, purtroppo, mi sa che non se le sono inventate. In effetti io non ho mai visto in faccia il mio sposo, né so di dove egli venga. Di lui conosco soltanto la voce per qualche paroletta che mi sussurra la notte e nient’altro, tranne che prima di giorno, è già fuggito. Questo mi fa pensare che voi abbiate proprio ragione e che si tratti di un mostro. "Sapete poi come si spaventa se io gli chiedo di volerlo conoscere e di quali disastri mi minaccia se gli dico che sono curiosa di sapere almeno com’è il suo volto. "Perciò se voi volete effettivamente soccorrere questa vostra sorella infelice, fatelo subito; qualsiasi indugio renderebbe vano il beneficio che già mi avete recato con il vostro tempestivo intervento.’ "Allora quelle due scellerate ebbero via libera nell’animo ormai indifeso della sorella e messa da parte la tattica sottile dell’intrigo sconvolsero i trepidi pensieri dell’ingenua fanciulla con le armi palesi della frode.

XX

"E così la seconda incalzò: ‘Poiché il vincolo di sangue che ci lega ci induce, pur di salvarti, a non tener conto del pericolo, noi ti indicheremo, dopo averci pensato e ripensato, l’unica via che può portarti a salvamento. Prendi un rasoio molto affilato, anzi rendilo più tagliente che puoi passandolo sul palmo della mano e nascondilo bene nel letto, dalla parte dove ti corichi, poi sotto una pentola ben chiusa poni una lucerna piena d’olio, di quelle che fanno molta luce, e fa bene attenzione che nulla si veda. Quando lui strisciando sulle sue spire, come al solito, sarà salito nel letto e vinto dal primo sonno comincerà ad avere il respiro pesante, tu scivola giù dal letto e pian piano, scalza, in punta di piedi, va a tirar fuori dal suo nascondiglio la lucerna e alla sua luce scegli il momento opportuno per la tua audace impresa, impugna senza esitazione quell’arma a due tagli, alza in alto il braccio e con tutta la tua forza stacca al terribile drago la testa dal collo. "Non ti mancherà il nostro aiuto perché appena tu l’avrai ucciso e sarai salva, noi accorreremo prontamente e ti aiuteremo a portar via in fretta tutte queste ricchezze e poi ti faremo sposare secondo il tuo desiderio, ma con un uomo, dal momento che sei una creatura umana.’

XXI

"Con queste parole di fuoco infiammarono l’animo della sorella che già divampava, poi la lasciarono in asso temendo esse stesse di restare più oltre sul luogo di tanto misfatto e fattesi portare in alto fino alla rupe dal solito soffio di vento, via di gran corsa fino alle navi per poi fuggire lontano. "Ma Psiche, rimasta sola, anche se sola non era perché tormentata da Furie ostili, si sentiva turbata e sconvolta come un mare in tempesta e benché risoluta e ferma nel suo proposito, benché già sul punto di consumare il misfatto, provava una certa esitazione e nella sua sventura era combattuta da sentimenti diversi. Ora voleva affrettarsi, ora differiva l’azione, voleva osare e aveva paura, disperava e a un tempo ardeva dalla collera, insomma odiava la bestia e amava il marito che erano un essere solo. "Tuttavia mentre scendevano le prime ombre della sera, trepidante e in gran fretta ella dispose ogni cosa per il delitto. ‘Venne la notte e giunse anche lo sposo che, dopo essersi un po’ cimentato in qualche schermaglia amorosa, cadde in un sonno profondo.
Psiche vede Amore.

XXII

"Allora a Psiche vennero meno le forze e l’animo; ma a sostenerla, a ridarle vigore fu il suo stesso implacabile destino: andò a prendere la lucerna, afferrò il rasoio e sentì che il coraggio aveva trasformato la sua natura di donna. "Ma non appena il lume rischiarò l’intimità del letto nuziale, agli occhi di lei apparve la più dolce e la più mite di tutte le fiere, Cupido in carne e ossa, il bellissimo iddio, che soavemente dormiva e dinanzi al quale la stessa luce della lampada brillò più viva e la lama del sacrilego rasoio dette un barbaglio di luce. "A quella visione Psiche, impaurita, fuori di sé sbiancata in viso e tremante, sentì le ginocchia piegarsi e fece per nascondere la lama nel proprio petto, e l’avrebbe certamente fatto se l’arma stessa, quasi inorridendo di un così grave misfatto, sfuggendo a quelle mani temerarie, non fosse andata a cadere lontano. "Eppure, benché spossata e priva di sentimento, a contemplare la meraviglia di quel volto divino, ella sentì rianimarsi. "Vide la testa bionda e la bella chioma stillante ambrosia e il candido collo e le rosee guance, i bei riccioli sparsi sul petto e sulle spalle, al cui abbagliante splendore il lume stesso della lucerna impallidiva; sulle spalle dell’alato iddio il candore smagliante delle penne umide di rugiada e benché l’ali fossero immote, le ultime piume, le più leggere e morbide, vibravano irrequiete come percorse da un palpito. "Tutto il resto del corpo era così liscio e lucente, così bello che Venere non poteva davvero pentirsi d’averlo generato. Ai piedi del letto erano l’arco, la faretra e le frecce, le armi benigne di così grande dio.

XXIII

"Psiche non la smetteva più di guardare le armi dello sposo: con insaziabile curiosità le toccava, le ammirava, tolse perfino una freccia dalla faretra per provarne sul pollice l’acutezza ma per la pressione un po’ troppo brusca della mano tremante la punta penetrò in profondità e piccole gocce di roseo sangue apparvero a fior di pelle. Fu così che l’innocente Psiche, senza accorgersene, s’innamorò di Amore. E subito arse di desiderio per lui e gli si abbandonò sopra e con le labbra schiuse per il piacere, di furia, temendo che si destasse, cominciò a baciarlo tutto con baci lunghi e lascivi.
Scomparsa di Amore.

"Ma mentre l’anima sua innamorata s’abbandonava a quel piacere la lucerna maligna e invidiosa, quasi volesse toccare e baciare anch’essa quel corpo così bello, lasciò cadere dall’orlo del lucignolo sulla spalla destra del dio una goccia d’olio ardente. Ohimè audace e temeraria lucerna indegna intermediaria d’amore, proprio il dio d’ogni fuoco tu osasti bruciare quando fu certo un amante ad inventarti per godersi più a lungo, anche di notte il suo desiderio. "Balzò su il dio sentendosi scottare e vedendo oltraggiata e tradita la sua fiducia, senza dire parola, d’un volo si sottrasse ai baci e alle carezze dell’infelicissima sposa.

XXIV

"Psiche però, nell’attimo in cui egli spiccò il volo, riuscì ad afferrarsi con tutte e due le mani alla sua gamba destra e a restarvi attaccata, inerte peso, compagna del suo altissimo volo fra le nubi, finché, stremata, non si lasciò cadere al suolo. "Ma il dio innamorato non ebbe cuore di lasciarla così distesa a terra e volò su un vicino cipresso e dal ramo più alto con voce grave e turbata così le parlò: "’Oh, troppo ingenua Psiche, mia madre, Venere, mi aveva ordinato di farti innamorare del più abbietto, dell’ultimo degli uomini e a lui darti in isposa; io invece le ho disubbidito e son volato a te per essere io stesso il tuo amante: stata una leggerezza, lo so, e mi sono ferito con il mio stesso dardo, io, famosissimo arciere, e ti ho fatto mia sposa perché tu, pensandomi un mostro, mi troncassi col ferro questo capo che reca due occhi innamorati di te. "’Eppure quante volte ti ho detto di stare in guardia, con che cuore ti ho sempre ammonita. Ma quelle tue brave consigliere presto faranno i conti con me per i loro suggerimenti funesti; quanto a te, basterà la mia fuga a punirti.’ E con queste parole aperse le ali e si levò nel cielo.
Psiche incontra il dio Pan.

XXV


"Da terra ove giaceva, Psiche seguì il volo dello sposo finché poté vederlo e, intanto, si sfogava in gemiti angosciosi; ma quando nel suo rapido volo egli si fu sottratto alla vista di lei, perdendosi lontano nello spazio, ella corse alla riva del fiume più vicino e a capofitto vi si gettò; ma il buon fiume, devoto al dio che suole accendere d’amore anche le acque e temendo per sé, senza farle alcun male la sollevò su un’onda e la depose sulla riva fiorita. "Per fortuna che Pan , il dio dei campi, se ne stava seduto proprio lì, sulla sponda del fiume, con Eco fra le braccia, la dea dei monti e le insegnava a cantare le melodie più varie, mentre le capre, qua e là, lungo la riva saltando, brucavano l’erba che la corrente lambiva "Il dio caprino appena vide Psiche così distrutta e affranta, poiché non era ignaro delle sue sventure, la chiamò dolcemente a sé, confortandola con buone parole: "’Figliola cara,’ cominciò a dirle ‘io non sono che un villano, un rozzo pastore, però di esperienza ne ho tanta dato che sono vecchio ormai. Quindi se vedo chiaro - in fondo in questo consiste, secondo quelli che se ne intendono, l’essere profeti - dal tuo passo vacillante, dal pallore estremo del tuo viso, da quel sospirare continuamente e soprattutto dai tuoi occhi così tristi, devo arguire che un amore violento ti tormenta. Dammi retta, allora, non provarci più a gettarti nel fiume, né cercare la morte in altro modo. Cessa di piangere, scaccia il dolore e mettiti piuttosto a pregare Cupido, il più potente degli dei: giovane, sensibile e vagheggino com’è, lusingalo con dolci voti.’
La punizione delle sorelle.

XXVI

"Psiche non rispose al dio pastore che le aveva parlato e, riverente al nume soccorritore, si mise in cammino. "A lungo errò per strade sconosciute, tra molti stenti, finché giunse con le prime ombre della sera ad una città dove era re il marito di una delle sue sorelle. Appena Psiche lo seppe si fece annunziare e quando fu dinanzi alla sorella, che, dopo reciproci scambi di abbracci e di saluti, le chiese le ragioni della sua venuta, così cominciò a dire: "’Ricordi i consigli che mi deste quando mi persuadeste ad uccidere con un affilato rasoio il mostro che mi dormiva accanto sotto il mentito nome di marito prima che fosse lui a divorar me, poveretta? "’Ebbene, quando la complice luce della lampada, come s’era d’accordo, mi rivelò il suo volto, oh, che spettacolo meraviglioso, addirittura divino, videro i miei occhi: il figlio stesso di Venere, Cupido in persona ti dico, era lì che riposava tranquillo."’Rimasi come colpita a tale straordinaria visione e mentre tutta sconvolta da un desiderio prepotente che mi faceva soffrire perché non riuscivo ad appagare del tutto, malauguratamente, dalla lucerna cadde una goccia d’olio bollente sulla sua spalla. Per il dolore egli si svegliò di soprassalto e vedendomi armata di ferro e di fuoco: "Tu? Un’assassina?" esclamò. "Infame, via dal mio letto, subito, fa fagotto. Tua sorella" e pronunziò il tuo nome, "io sposerò con legittime nozze" e là per là comandò a Zefiro che mi buttasse fuori dalla sua casa.’

XXVII

"Psiche non aveva ancora finito di parlare che quella, eccitata dagli stimoli di una pazza libidine e da una malvagia invidia, così su due piedi, inventò al marito una panzana che facesse al caso, cioè che aveva saputo della morte di uno dei suoi genitori e, di furia, prese la nave e si recò direttamente alla nota rupe. "Ma il vento che soffiava, ora era vento diverso, tuttavia, protesa in una folle speranza, quella cominciò a invocare: ‘Cupido prendimi, sono io la sposa degna di te, e tu, Zefiro, accogli la tua padrona’ e con un gran salto si buttò giù. "Ma nemmeno morta poté giungere là dove voleva, perché il suo corpo si sfracellò sulle rocce aguzze e per gli uccelli rapaci e le fiere quelle membra straziate furono un pasto abbondante. Era quello che si meritava. "Il seguito della vendetta non si fece attendere. Infatti Psiche, nel suo peregrinare, giunse a un’altra città dove abitava la seconda sorella e anche a questa tese la stessa trappola. Costei, bramosa di prendere il posto della sorella con nozze sciagurate, s’affrettò a correre alla rupe e fece la stessa fine dell’altra.
Venere viene a conoscenza dell'accaduto.

XXVIII

"Intanto mentre Psiche andava di paese in paese cercando Amore, questi, dolorante ancora per la scottatura della lucerna, s’era rifugiato nello stesso letto della madre e si lagnava. "Allora il candido uccello che sfiora con le sue ali le onde del mare, il gabbiano, velocissimo, si tuffò nel profondo grembo dell’Oceano e avvicinatosi a Venere che tranquillamente stava facendo il bagno e nuotava, le riferì che il figlio s’era scottato, che si lamentava per il dolore acuto della piaga, e che giaceva a letto in grave stato; infine che la famiglia di Venere ormai era sulla bocca di tutti e sul suo conto correvano dicerie e malignità a non finire, per esempio che il figlio s’era appartato tra i monti per godersi i favori di una sgualdrina e che lei, la madre, se ne stava sempre in mare a nuotare e che perciò gli uomini non sapevano più cos’era il piacere, la gentilezza, la grazia, e tutto era diventato rozzo, selvaggio, volgare, e non si celebravano più matrimoni, non c’erano più relazioni amichevoli fra gli uomini e anche l’amore per i figli si stava allentando e c’era solo un gran disordine e come un fastidio per ogni sorta di legami del resto sempre meno sentiti. "Questo cicalava quell’uccello petulante e pettegolo all’orecchio di Venere, calunniandole il figlio. "’Ah, così quel mio bravo figliolo ha già l’amica?’ sbottò a un tratto la dea su tutte le furie. ‘E tu che sei l’unico a servirmi con affetto, fuori il nome, voglio sapere chi è questa che ha sedotto un ragazzino ingenuo e indifeso, se è una Ninfa o una delle Ore o una Musa o anche una delle Grazie al mio servizio.’ "E l’uccello chiacchierone non tacque: ‘Non lo so mia signora, credo però che egli sia innamorato cotto di una fanciulla mortale; se ben ricordo si chiama Psiche.’ "Venere saltò su infuriata e cominciò a gridare: ‘Ah è Psiche che ama! La mia rivale in bellezza, quella che voleva usurpare il mio nome. Sta a vedere che il ragazzo mi avrà presa per una ruffiana e s’è pensato che io gli abbia mostrato la fanciulla perché ci andasse assieme.’
Venere rimprovera Cupìdo.

XXIX

"E uscì dal mare strillando per precipitarsi di furia al suo talamo d’oro dove, come le era stato riferito, trovò il giovanotto infortunato: ‘Belle cose mi fai sentire’ cominciò a tuonargli dal limite della porta. ‘Proprio quello che ci voleva per la tua famiglia e il tuo buon nome. Prima di tutto te ne sei infischiato degli ordini di tua madre, anzi, che dico, della tua padrona, e invece di punire la mia rivale legandola a un uomo spregevole, te la sei presa tu, alla tua età, per i tuoi dissoluti e precoci amori; e io dovrei sopportare per nuora la mia nemica? Ma che credi, buffone, seduttore, essere odioso, che soltanto tu ora sei capace di aver figli eh? Pensi che alla mia età io non ne possa più farei Ebbene sappi che ho deciso di avere un altro figlio, e molto migliore di te; anzi, a tuo maggior dispetto, adotterò qualcuno dei miei schiavetti e gli darò codeste penne, la fiaccola, l’arco e anche le frecce, insomma tutto quest’armamentario che è di mia proprietà e che ti avevo affidato non certo perché tu ne facessi l’uso che ne hai fatto. Roba di tuo padre, infatti, in tutto questo corredo non ce n’è davvero.

XXX

"La verità è che tu sin da piccolo eri un poco di buono e hai sempre avuto le grinfie lunghe. Quante volte senza alcun rispetto hai messo le mani addosso anche ai tuoi vecchi; perfino di tua madre, dico io, sì, proprio, anche di me, assassino, te ne approfitti; spesso mi hai anche picchiata; mi tratti male come se non avessi nessuno al mondo e non hai soggezione nemmeno di quel grande e forte guerriero che è il tuo padrino. E che? forse non è vero che tante volte a dispetto mio gli hai procurate delle ragazze? Ma ti farò pentire io di codesti tuoi scherzi e sentirai come ti diventeranno amare e agre queste tue nozze. "Sì, ma ora che devo fare dal momento che sono stata beffata? Dove devo andare? E com’è che posso tenere a bada questa tarantola? Possibile che debbo chiedere aiuto alla Temperanza, alla mia nemica, che io ho tante volte offeso proprio per colpa di questo scostumato? "D’altro canto mi vengono i brividi al pensiero di dover parlare a quella cafona miserabile; comunque la soddisfazione che dà la vendetta non è cosa da buttar via, da qualunque parte venga, e, quindi, proprio di lei e di nessun’altra mi posso servire per dare a questo pagliaccio una solenne lezione, spaccargli la faretra spuntargli le frecce, allentargli l’arco, spengergli la fiaccola, insomma adottare rimedi estremi per farlo rigar dritto. Non mi sentirò soddisfatta dell’offesa patita fino a quando quella donna non lo avrà pelato della chioma che io stessa, con le mie mani, ho tante volte pettinato e fatto risplendere come oro, e non gli avrà spuntate le penne che, tenendolo in grembo, io gli ho imbevute di nettare.’

XXXI

"Così parlò la dea e uscì a precipizio dalla stanza, adirata e furente come sapeva esserlo soltanto lei. "Ma ecco che Cerere e Giunone le corsero dietro e vedendola tutta sconvolta le chiesero il perché di quel truce cipiglio che toglieva incanto e fulgore ai suoi occhi. "’Siete proprio giunte a proposito’ le interruppe: ‘ho la rabbia in corpo e voi mi darete la soddisfazione che cerco. Vi prego, mettetecela tutta, ma trovatemi questa Psiche, sempre in fuga, sempre che scompare. Sapete, no, le favolette che corrono ormai sulla mia famiglia e le prodezze di quel tipo che non voglio più chiamare figlio?’ "’Quelle, allora, conoscendo i fatti, si misero ad ammansire la dea: ‘Ma che cosa ha poi fatto di tanto male tuo figlio, che gli togli tutti gli spassi e addirittura vuoi a tutti i costi la rovina della fanciulla che ama? Via, non è mica un delitto se ha fatto l’occhietto a una bella ragazza. In fondo è un maschio, ed è un giovanotto! O ti sei dimenticata quanti anni ha? O forse perché li porta bene credi che sia sempre un ragazzino? E tu che sei sua madre e, per di più, una donna piena di buon senso, che fai ora? Ti metti lì a indagare nelle passioncelle di tuo figlio, ad accusarlo che è un donnaiolo, magari a rimproverargli i suoi amori, a biasimare in un ragazzo così avvenente quelle che sono le tue abitudini, i tuoi piaceri? "’Nessun dio, nessun uomo potrebbe darti ragione se tu continui a spargere il seme del desiderio tra le genti e poi, a causa tua, pretendi che Amore faccia astinenza e chiudi la scuola dove s’insegnano certi vizietti che piacciono alle donne.’ "Così quelle due dee, per paura delle sue frecce e per propiziarselo, di loro iniziativa presero le difese di Cupido, benché questi non fosse presente. "Ma Venere, indispettita perché le offese che aveva ricevute venivano prese poco sul serio, voltò loro le spalle e tutta risentita, a rapidi passi, prese la via del mare.





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