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L'enigma de sa Femina Agabbadora, nel cortometraggio firmato da Gianluigi Tarditi per la Ophir Production: un'intensa Clara Murtas e un cast indovinato svelano una Sardegna arcaica, tra fine a i riti delle dell'inizio, nella spietata trama dei ricordi.
Deu ci sia cortometraggio prodotto dalla Ophir Production ha vinto la sezione corti HD del Capalbio Cinema International Short Film Festival 2010. La giuria composta dall'attrice Francesca Inaudi, il direttore della fotografia Giulio Pietromarchi, e Francesco Ventura del Mibac, ha premiato il corto ambientato nella Sardegna rurale del XIX secolo, girato negli stazzi galluresi tra Luras e Tempio.
Il corto ha ricevuto anche la menzione speciale per la fotografia.
Segreti di famiglia in un crescendo di “sussurri e grida”, preludio al buio, nel fluire inarrestabile delle esistenze in “Deu ci sia”, il cortometraggio scritto e diretto da Gianluigi Tarditi (che firma anche le musiche) ispirato a sa Femina Agabbadora, prodotto dalla Ophir Production, presentato in anteprima (il 14 aprile) alla Società Umanitaria - Cineteca Sarda di Cagliari.
Così il regista, già autore di short stories, racconta la genesi del film:
“Deu ci sia” è il frutto di una seduzione, mi ha affascinato la figura de sa Femina Agabbadora, avvolta nella leggenda ma significativa al di là della documentazione storica come parte di un immaginario collettivo. Nel corto diventa il motore della storia incentrata sul dramma di una famiglia costretta ad affrontare la morte imminente e soprattutto le sofferenze per la malattia di una persona cara.
Come dar corpo al sogno - forse l'incubo - di colei che pone fine (drasticamente) al dolore terreno?
Sullo schermo s'Agabbadora ha il volto intenso di Clara Murtas, che racchiude la forza ma anche la fragilità e il mistero di questa donna, rispettata ma non amata. Una distanza che ho voluto sottolineare attraverso le parole, inserendo una nota antistorica: è l'unica che parli in limba, gli altri le rispondono in italiano, proprio per dare l'idea di questo personaggio che viene capito ma non compreso. E' una figura che vive ai margini, custode dei segreti della nascita e della morte: viene chiamata perché serve, ma la sua sapienza incute un certo timore. La sua presenza si avverte in tutto il film: apre e chiude una trama fatta di ricordi e sentimenti contrastanti dei parenti riuniti intorno al morente.
Quindi le emozioni in primo piano?
Il racconto si sviluppa nel dialogo, a senso unico (perché l'infermo non può rispondere) tra il capofamiglia costretto a letto e la moglie, i figli, il fratello e la nuora, nell'alternarsi di narrazione lineare e flashback: ho utilizzato il rito dell'ammentus, in cui si ricordavano le colpe per ottenere il perdono divino, per far vomitare ai personaggi i veleni, i rancori non sopiti. Affiorano le cose mai dette in una sorta di confessione alla rovescia: sono i parenti che denunciano ingiustizie e soprusi, tradimenti e perfino delitti davanti all'uomo che pure muto e prossimo alla fine, conserva il suo ruolo e il suo potere. Se poi a muovere i personaggi sia un desiderio di aiutare o di vendicarsi, se il voler bene sia una maschera, sarà lo spettatore a deciderlo: proprio quest'ambiguità degli affetti è il fulcro del cortometraggio.
Dove e quando si svolge la storia descritta in “Deu ci sia”?
La vicenda è ambientata in una Sardegna di fine Ottocento, è un film “in costume” ma non un documentario: quello che con la collaborazione preziosa della costumista Stefania Grilli ho cercato di preservare è stata la realtà di certe atmosfere, ma senza eccessi filologici, prendendomi anche delle libertà. In particolare per la lingua: è stato girato in Gallura (con l'apporto della STL) con attori provenienti da diverse parti dell'Isola (oltre a Clara Murtas, Clara Farina, Mario Olivieri, Daniele Meloni, Michele Carboni, Carla Orrù), tranne s'Agabbadora tutti parlano in un italiano in cui ho voluto (e non è stato facile!) anche le inflessioni sarde; nelle versioni per l'estero probabilmente queste sfumature andranno perse, ma mi è sembrato importante per restituire alla vicenda una sua autenticità.
Tratto e condensato dall'articolo "E che 'Deu ci sia' " di Anna Brotzu su www.cinemecum.it
Sulla tradizione sarda dell'eutanasia consigliamo anche il romanzo
Accabadora di Michela Murgia, edizioni Einaudi
SA FEMMINA ACCABADORA
Con il termine sardo femmina accabadora (s'accabadóra o agabbadora, lett. "colei che finisce", probabilmente dallo spagnolo acabar, "finire", "terminare") si soleva indicare una donna che praticava l'eutanasia su persone anziane o in condizioni di malattia tali da portare i familiari a richiedere questo servizio. La pratica non doveva essere retribuita, poiché il pagare per dare la morte era contrario ai dettami religiosi e morali.
Si hanno prove di pratiche della femmina accabadora fino a pochi decenni fa.
Diverse sono le pratiche di uccisione utilizzate dalla femmina accabadora: si dice che entrasse nella stanza del morente vestita di nero e con il volto coperto, e che lo uccidesse tramite soffocamento con un cuscino, oppure colpendolo sulla fronte tramite un bastone d'olivo (su mazzolu) o dietro la nuca con un colpo secco, o ancora strangolandolo ponendo il collo tra le sue gambe. Alcuni autori, fra cui l'Alziator, descrivono come strumento principale dell'accabadora non una mazza ma un piccolo giogo in miniatura, da poggiare sotto il cuscino del moribondo al fine di alleviare la sua agonia. Questo si spiega con uno dei motivi principali per cui si credeva che un uomo fosse costretto a subire una lenta e dolorosa agonia in punto di morte: se lo spirito non voleva staccarsi dal corpo era palese la colpa del moribondo, il quale si era macchiato di un crimine vergognoso, aveva bruciato un giogo, o aveva spostato i termini limitari della proprietà altrui, oppure aveva ammazzato un gatto...
Altro rito che veniva compiuto era quello di togliere dalla stanza del moribondo tutte le immagini sacre e tutti gli oggetti a lui cari: si credeva in questo modo di rendere più semplice e meno doloroso il distacco dello spirito dal corpo.
Secondo le riflessioni dell'Alziator il compito dell'accabbadora non era tanto quello di mettere fine nel senso letterale del termine alle sofferenze dei moribondi, quanto quello di cercare di accompagnarli alla fine della loro agonia tramite riti di cui si è sicuramente persa la memoria.
• Alessandro Bucarelli, Carlo Lubrano, Eutanasia ante litteram in Sardegna. Sa femmina accabbadòra. Usi, costumi e tradizioni attorno alla morte in Sardegna, Scuola Sarda, 2003, ISBN 8887758042
• F. Alziator, Il folklore sardo, Zonza, 2005, ISBN 888470135X
Tratto e adattato da wikipedia
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