Dedicato alla terra
che mi guarisce |
Da sempre mi piacciono i fiori, nei vasi riempiti di terra, non di acqua.
I fiori nella terra sono destinati a rinascere mille e mille volte dopo
di me. Le gerbere che ho portato sono l’unico omaggio floreale;
a fianco dello scagnut [sgabello], fanno bella figura.
“Cocâl, tu meteras
ancje tu lis lidrîs, tu viodaras ben che le smanie di svolà
ti passe! ” [Gabbiano/sciocca, metterai le radici anche tu, vedrai
come ti passa la voglia di svolazzare!] mi ripeteva Le Mari fino a un paio di estati fa, durante le
mie sporadiche visite alla mia montagna d’origine, sempre più
rare, da quando avevo scoperto che mi piaceva il mare.
Cocâl,
e non capivo dove il suo sorridere benevolo alle mie ali di fuggitiva
sfumasse nella presa in giro alla mia immaturità, al mio folle
irrazionale sbrigarmi per diventare donna in fretta e possibilmente
bella.
“Mangitu ben, sì,
a Triest? ” [mangi bene a Trieste?] e
metteva in tavola vino rosso e salame e grissini, alle dieci e mezza
di mattina.
“Sì.”
“Ti fatu di bessole?"
[cucini da sola?]
“Sì, Mari.”
“Brave.”
Le Mari contava un’ottantina d’anni e una quindicina
di nipoti, era la vecchia più vecchia di quel spigoloso fazzoletto
di terra, forse più anziana della terra stessa. Eppure, sempre
era rimasta Le Mari: la Madre. Grassa e gonfia come una giumenta,
sembrava perennemente incinta, pronta a dare alla luce un gigante e
ad allattarlo da lì all’eternità. C’era del
miracolo nella sua risorgiva di sempreverde fertilità. Certo
la durezza degli inverni e il peso della gerla le avevano intaccato
le giunture, le sofferenze e le linee dei pensieri gravi erano rimaste
incise sulla fronte, eppure conservava una particolare morbidezza nel
tocco, una speciale soavità nello sguardo e in tutti i gesti
con cui usava amare il prossimo.
[“Mari, andiamo per funghi.”
“Nin, nin, prime ch’al
vegni su il caligo.” [andiamo, andiamo, prima che venga il caldo],
si sfrega le mani sul grembiule scuro e ride, riempiendosi di allegria
le rughe.
Usciamo di casa e prendiamo la via del bosco. Procediamo lentamente,
godendo della timida luce del sole e dei vapori odorosi della vegetazione
piomba di rugiada. I nostri piedi scricchiolano di pari passo sulla
ghiaia fine del sentiero.]
Pensare che molti anni prima, quando scorgevamo Le Mari in
lontananza, noi bimbi di allora si andava a nascondersi e la si spiava
dall’alto delle forcelle dei rami, o tra le assi degli steccati,
per osservare la regina delle ombre senza finire nella cosse [gerla].
I ragazzi più grandi, quelli capaci di arrampicarsi sugli alberi,
giuravano che teneva i capelli scriminati secondo una linea che era
tale e quale il corso del fiume e scommettevano che se si fosse cambiata
pettinatura, anche la geografia si sarebbe modificata.
Capitò all’età di sei anni che, nella cosse, mi
ci infilò sul serio. Il pendio non era ripido, ma il ruzzolone
talmente scomposto che riuscii ad ammaccarmi comunque. Stramazzai malamente
sotto una pioggia di originali coriandoli. La caviglia era livida e
mi pulsava forte e mi salirono le lacrime agli occhi; singhiozzai quando
mi accorsi che un’ora di raccolta di finferli era andata sprecata;
cominciai a piangere a dirotto quando vidi Le Mari venire verso
di me.
["Ce
brute colade, fie, fami viodi” [che brutta caduta, piccola,
fammi vedere], insiste, e io troppo
spaventata anche per tentare una zoppicante fuga.
“Ten chi il to amì, intant che ti medei” [tieni
il tuo amico, intanto che ti medico] e mi porge in mano un fazzoletto
con un uccellino dall’ala rotta. L’aveva fasciata con stecco
e garza. La guardo di soppiatto e sulla sua faccia non c’è
traccia di strani porri, peli sospetti o occhi di fuoco; no, non può
essere una strega. Per di più cura gli uccellini. “Zovins,
e za duc rots!” [giovani, e già tutti rotti!],
ride. “Ma guarisce?” “Orpo!
Cun te, prest. Nin cumò che ti meni dai nonos.” [sicuro,
con te presto. Andiamo adesso che ti porto dai nonni].
“Ce mut lu clamitu?"
[come lo chiami?], mi chiede mentre
oscillo ai suoi passi nell’inusuale mezzo di trasporto. “Fortunello!”]
Mi siedo sullo sgabello e sgrano il rosario. Non che io preghi, non
lo faccio più da… non lo faccio più.
["
E duarmitu le gnot?” [e dormi la notte?]
“Insomma.”
“Tu as di durmì,
se no tu flapis, biele.” [devi dormire la notte, senno appassisci,
bella]
“Hmm.”
“Ditu une Ave Marie
le sere?” [dici un’Ave Maria la sera?]
“No.”
“Tache, cjape il me
rosari.” [comincia, prendi il mio rosario]
“Ma Mari…”
“Cjape ca!” [prendi!]
“Po ben.”
Sedute sulla panchina in legno grezzo davanti alla casa, mi spiega quando
si deve recitare cosa. Poi osserva taciturna i gerani e le bocche di
leone, nate spontanee e cresciute sempre più numerose. Batte
con le ciabatte il terreno molle.
“Eh sì, frute,
je tiare buine par nassi, par cressi, e sarà buine ancje par
polsà.” [eh sì, bambina, è terra buona per
nascere, per crescere, sarà buona anche per riposare]
Ha le nuvole negli occhi.]
Batto col piede il terreno molle: sì, è buona per riposare, Mari. Lo sai bene tu che hai voluto sistemare uno sgabello
al posto della lapide, perché potesse riposare il viandante e
contemplare quella che oggi è una generosa aiuola. Così
come è buona per crescere: lo so bene io, grassa e gonfia come
una giumenta, che mi puntello sullo scagnut per alzare me e
la mia pancia di otto mesi e mezzo e che conosco l’amore per il
quale vale la pena mettere lis lidrîs, in ta le tiare buine,
buine par falu nassi [le radici, nella terra buona, buona per farlo
nascere].
Mille e mille
volte dopo di me,
attraverso me. |
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L'AUTRICE
Fabiola Sguassero, 21 anni, è laureanda in Lingue e Letterature
e Culture Straniere Moderne presso l'Ateneo triestino.
Nutre uno smodato gusto nello scrivere e un fervido interesse
per l'arte di qualsivoglia genere, specie quella del viver bene.
mauve_lilac@yahoo.it |
© 2007 Testo
originale di Fabiola Sguassero
Qualsiasi riproduzione, senza esplicito
consenso dell'autrice, è vietata.
Pubblicato su www.ilcalderonemagico.it il 27 maggio 2007
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Mari della Terra e delle Tempeste
Immagine: Raices di Frida Kalho, tratta da http://www.pigazo.es/blog
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